MARCO STRANO QUARTET
«Silver and black»
Caligola 2069
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Franco Lion (contrabbasso), Paolo Balladore (batteria)
Ospite : Alessandro Magliarditi (organo hammond)
Quarta prova da leader di Marco Strano, ma prima in assoluto per la nostra etichetta, «Silver and black» parte subito con un avvincente brano modale (vicino al Gato Barbieri più coltraniano), Nightmare, che segna in modo profondo tutta la musica dell’album. Eccellente prova di maturità del sassofonista padovano, che gli appassionati avevano cominciato a conoscere nel 1995 come componente del Sax Appeal Quartet («Giotto», Soul Note), ma che poi ha intrapreso una propria strada, alla ricerca di una dimensione artistica più autonoma e personale. Se le influenze di Michael Brecker, nella cantabile For a friend, e di Bob Berg, cui viene dedicata la dolcissima Goodbye Bob, si fanno sentire quando imbraccia il tenore, Strano appare molto originale anche al soprano – si ascolti al proposito lo struggente tema di A new life, ma anche la delicata Something tells me – ma dimostra di sapersela cavare molto bene anche al contralto ed al flauto.
Unico brano, dei dodici presenti nell’album, che non porta la firma del leader, è l’avvincente La mela di Odessa, che ai non più giovani non potrà non riportare alla mente il leggendario gruppo degli Area, di cui rappresenta uno dei “frutti” più maturi, ripresa da Strano con notevole gusto e ricondotta, senza snaturarne l’originale dinamica, alla propria personale cifra stilistica. Qui, come in altri quattro brani, aggiunge calore al già rotondo e compatto sound del quartetto l’organo hammond di Magliarditi, che affianca, senza ostacolarne le trame, l’originale pianoforte di Mozzi, che sa passare con disinvoltura dall’incipit tyneriano dei brani ritmicamente più movimentati ad un tocco più morbido, quasi evansiano, capace di esaltare il lirismo passionale – che la controllata e sublime tecnica strumentale non riesce a mascherare fino in fondo – del leader. Si ascolti al proposito una ballad dolce e melanconica come Paola, anche questa affrontata con il soprano, così come il successivo tema shorteriano di Secret Language, sorta di giocoso contraltare alla struggente passionalità del brano precedente. La stessa festosa atmosfera pervade anche il tema finale di Street game, pescato da una tavolozza che ha già riempito il nostro quadro con colori caldi e brillanti, per regalarci un “frutto musicale” cui non è certamente estranea l’altra – e non secondaria – passione di Marco Strano, il quale, per chi non lo sapesse, è anche un eccellente ed apprezzato pittore.
GIULIANO PERIN
«Flexibility»
Caligola 2068
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Jacopo Jacopetti (sax tenore), Giuliano Perin (vibrafono), Marcello Tonolo (pianoforte), Luciano Milanese (contrabbasso), Massimo Chiarella (batteria)
E’ alla sua seconda prova da leader per la nostra etichetta, il vibrafonista padovano Giuliano Perin, noto agli appassionati veneti per far parte sia della Thelonious Monk Big Band che della Royal Big Band di Padova. Jazzista originale e maturo, Perin torna con questo disco ad un mainstream jazz molto legato alla tradizione neroamericana, che per il vibrafono affonda le sue radici in Milt Jackson e Bobby Hutcherson. Atmosfere molto diverse quindi da quelle che aveva proposto nel precedente «Into the vibes» (Caligola 2055), dove un inedito quartetto con la chitarra acustica di Ermanno Maria Signorelli privilegiava preziosismi armonici e sottigliezze melodiche, per rendere omaggio al suo massimo maestro ed ispiratore, Dave Samuels.
Pervade questi dieci solchi uno swing fluido e contagioso, che nei sei brani registrati in quartetto non può non ricordare il leggendario Modern Jazz Quartet. Da antologia è l’interpretazione fornita di For keeps, composta da Terry Gibbs, uno degli strumentisti, insieme a Samuels naturalmente, che più hanno influenzato stilisticamente il vibrafonista padovano. Da ricordare, ancora in quartetto, è l’avvincente sviluppo della bella melodia di Siesta, soprattutto da parte del suo autore, il solido pianista Marcello Tonolo, ma anche la deliziosa versione di I ricordi della sera, di Savona e Giacobetti – membri del Quartetto Cetra, lo ricordate? – canzone che riproposta per la prima volta in un’interpretazione di così grande spessore jazzistico sembra avere tutti i requisiti per diventare un altro importante standard del jazz dei nostri giorni.
In quattro brani il gruppo con l’aggiunta di tre fiati diventa settetto, e l’atmosfera musicale cambia ancora, per avvicinarsi ulteriormente a certe calde ed infuocate “session” di marca Blue Note, che hanno permeato in modo indelebile il jazz degli anni ’50 e ’60. Hard–bop caldo e viscerale, che trova nell’iniziale Spring breeze, davvero ben arrangiato, e nel brano di chiusura – che è anche quello che dà il titolo all’lbum – entrambi composti da Perin, i suoi momenti più felici. Se il veterano contrabbassista Luciano Milanese rappresenta con la swingante batteria Massimo Chiarella l’ideale sostegno per questa musica, un riconoscimento va anche all’apparto fornito dal trombonista Benny Laconica, già ospite nel precedente album, da Jacopo Jacopetti, sax tenore, e Maurizio Scomparin, tromba.
ANTONIO FIGURA & MARCO BARSANTI
«Cyclo»
Caligola 2067
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Alberto Amato (contrabbasso), Marco Barsanti (batteria)
Il progetto “Cyclo” è nato nell’estate del 2003 dall’incontro del chitarrista americano William Pavia Lenihan con il pianista siracusano Antonio Figura, ai quali si è subito aggiunto il batterista fiorentino Marco Barsanti. Si tratta di tre jazzisti con alle spalle un background musicale estremamente variegato, la cui sinergia dà luogo ad un sound moderno e personale. Attraverso composizioni originali, caratterizzate da melodie eteree e sognanti, spesso semplici, ma costruite su armonie e strutture ritmiche raffinate, il gruppo esplora, di volta in volta, il proprio linguaggio improvvisativo, frutto della sintesi fra tradizione afroamericana e quella europea. La collaborazione fra i tre musicisti si concretizza l’anno dopo, nell’estate del 2004: viene così registrato quest’album, che dà l’esatta misura di una musica che ha nel calore ed in un lirismo ricco di sapori mediterranei. oltre che in una lucida inventiva melodica, i suoi punti di forza. Può esserci d’aiuto tirare in ballo Pat Metheny, gli Oregon o certo jazz di marca ECM, ma non basta: Cyclo ha una sua stringente e peculiare originalità. Temi come il suggestivo e suadente Biolcks di Marco Barsanti, il cantabile e più sostenuto Orion, di Luciano Figura, oppure il nostalgico e melanconico Tra due mondi, di William Pavia Lenihan, che qui dimostra fra l’altro d’esser anche un eccellente fisarmonicista.
Docente di chitarra classica e jazz presso la prestigiosa Washington University di St.Louis, Pavia Lenihan – il cui doppio cognome tradisce origini italiane – Pavia Lenihan possiede un impressionante curriculum, non solo nell’ambito jazzistico, avendo lavorato sia nella musica sinfonica che nella produzione di colonne sonore cinematografiche. Ha comunque collaborato con jazzisti del calibro di Chick Corea, Ralph Towner, Ron Carter e Dave Weckl. Insegna presso l’accademia di musica moderna “Lizard” di Firenze, il pianista Antonio Figura, nativo di Siracusa ma ormai toscano d’adozione. E’ proprio nell’ambiente del jazz fiorentino che Figura ha conosciuto il batterista Marco Barsanti – anche lui con importanti esperienze professionaliu alle spalle, sia in Italia che in Europa che negli Stati Uniti – suo compagno di viaggio anche in uno disco di qualche anno fa, «Zazj» (Caligola 2036), firmato dal contrabbassista emiliano Luca Capiluppi, a cui aveva partecipato anche il sassofonista Luciano Figura, fratello di Antonio.
OTELLO SAVOIA
«… In giostra»
Caligola 2066
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Dopo la riuscita parentesi di «Dispair» (Caligola 2050), dove un quintetto con due sassofoni (Bearzatti e Polga) rimandava esplicitamente a certi gruppi di Paul Motian, il contrabbassista Otello Savoia, padovano d’adozione, ritorna con questo gioioso ed allo stesso tempo nostalgico «…in giostra» alla sua formazione prediletta e per più lungo tempo frequentata, il quartetto completato da fisarmonica, chitarra e batteria. Non si può quindi non pensare al suo primo disco da leader, pubblicato dalla nostra etichetta nel 1999, «Louise» (Caligola 2030), ma non possono nemmeno venire ignorate le prime prove del fisarmonicista Richard Galliano, cui questi gruppi esplicitamente rimandano. Così come in «…in giostra », anche nella ricordata incisione di sei anni or sono voce insostituibile del gruppo, insieme a quella del leader naturalmente, era la fisarmonica di Fausto Beccalossi, originale ed ispirato interprete di uno strumento che ha oramai, grazie a Galliano, riguadagnato il rispetto di tutto il mondo del jazz. Cambiano invece il chitarrista ed il batterista (rispettivamente Dario Volpi e Riccardo Biancoli), strumentisti meno noti ma in grado di aggiungere alla musica di Savoia nuovi e suggestivi colori.
Al quartetto, sorprendentemente omogeneo ed affiatato, si aggiungono in cinque delle undici tracce del disco le fantasiose percussioni di Pedro Perini. I brani segnalati sono in realtà dodici, ma quello che dà il titolo all’album, intriso d’una nostalgia di sapore felliniano, viene proposto in due differenti takes, come titolo di testa e di coda. E’ ancora un soffusa melanconia a permeare sia le accattivanti linee melodiche di Beccalossi, autore di Stefany e di Marco (ma anche Dario Volpi dà il suo importante contributo compositivo con due brani, fra cui ci piace ricordare la spagnoleggiante Swo), sia il valzer musette di Rue de l’harpe – che parte con un’ispirata, struggente introduzione solitaria della fisarmonica – che la friselliana Plume, entrambe composte dal leader. Savoia, alla cui poetica espressiva è del tutto estranea qualsiasi concessione al virtuosismo strumentale, mostra allo stesso tempo la forte influenza esercitata sulla sua formazione dalle culture musicali latinoamericane. Lo dimostrano compiutamente il calipso festosamente danzante di Guardalavaca, l’incidere sospeso e sognante di Filastrocchia ma anche Fatum, ipnotico fado di Ferriera portato al successo da Amalia Rodriguez ed unica composizione non originale di tutto il disco.
DIMITRI GRECHI ESPINOZA
«Artistic Alternative Music»
Caligola 2065
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Filippo Monico (batteria)
Non è affatto terminata l’esperienza del Dinamitri Jazz Folklore, originale e funambolico quintetto che aveva pubblicato nel 2003 il suo secondo disco, «Folklore in black», per Caligola. Il suo leader, l’altosassofonista livornese Dimitri Grechi Espinoza, si è soltanto preso una piccola pausa di riflessione, sentendo forse il bisogno di rimettersi in gioco con questo trio molto libero, quasi paritetico, in cui forse non c’è un vero e proprio leader, completato com’è da due illustri veterani dell’avanguardia, musicisti che hanno fatto la storia del jazz italiano, Piero Leveratto, contrabbasso, e Filippo Monico, batteria. Ne è nato un album che non è, come potrebbe sembrare, un episodio fine a se stesso, ma si collega direttamente a quella sorta di “panafricanismo” che costituisce l’essenza del percorso artistico di Grechi Espinoza, convinto assertore delle proprietà terapeutiche della musica. Quello che a noi interessa però è il risultato musicale, davvero eccellente, anche perché serve tra l’altro a mettere meglio in luce le sue doti di sassofonista energico e viscerale, degno erede della migliore tradizione neroamericana. Se sembra sin troppo ovvio chiamare in causa l’Art Ensemble of Chicago, Roscoe Mitchell e Anthony Braxton ma anche, perché no, l’Ornette Coleman lirico e nostalgico, quasi struggente, dei trii scandinavi, va anche riconosciuto al sassofonista livornese il merito di voler procedere tenacemente per la propria difficile strada, senza cedere alle lusinghe di chi vorrebbe magari che il suo jazz si annacquasse un poco, per allinearsi maggiormente ai canoni della tradizione europea. Non è musicista che ama il compromesso Grechi Espinoza, e l’urlo liberatorio di Hi, I’m the mask, il claudicante incedere di Nice to, il lirico trasporto colemaniano di Meet you o di You don’t fear (of), la cantabile eppur graffiante Pitch trance, il lungo ipnotico soliloquio di You will, rendono giustizia al suo jazz sincero, sempre ispirato, spesso viscerale. Esemplari partner in questa ricerca musicale si rivelano Piero Leveratto – la cui cavata profonda è protagonista assoluta dell’inquietante sospeso ritmico di Riverse and transform – e Filippo Monico (magistrale l’uso dei piatti nello stesso brano, ma anche dei tamburi nel sognante episodio finale di Dancing with me). Ma se si dovesse scegliere un esempio di come le forti personalità dei tre musicisti riescano magicamente ad integrarsi, questo è costituito forse dal breve ma significativo bozzetto di Minor turbations, il cui incedere ciclico, quasi una corsa ad inseguimento fra i tre strumentisti, lascia intravedere le enormi potenzialità del trio.
CAL TRIO
«Do ut do»
Caligola 2064
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Cristiano Calcagnile (batteria, percussioni)
Nato nel 1967 a Messina ma attivo da più di un decennio sulla scena dell’avanguardia jazzistica bolognese, il chitarrista Domenico Caliri non è nuovo a progetti trasversali e stimolanti. Dal 1993 ha fatto parte dell’associazione Bassesfere, collettivo di musicisti impegnato nella divulgazione della musica improvvisata, e nello stesso anno ha costituito il doppio quintetto Specchio Ensemble, che ha all’attivo due pregevoli dischi ed esibizioni in prestigiosi teatri europei. Ma la fama di Caliri s’è notevolmente allargata quando ha iniziato una lunga e importante collaborazione con il trombettista Enrico Rava. Il chitarrista non s’è limitato a partecipare alla registrazione del disco «Rava–Carmen», ma è soprattutto entrato a far parte del fortunato gruppo “Rava Electric Five”, che ha pubblicato ben quattro album per l’etichetta francese Label Bleu. Caliri ha collaborato nell’arco di una già soddisfacente carriera con jazzisti del calibro di Lester Bowie e Han Bennink, di Kenny Wheeler e Richard Galliano, di Butch Morris e Aldo Romano, ma la grande fantasia, l’amore per il rischio ed il senso dell’ironia che lo contraddistinguono hanno forse trovato nel Cal Trio la sin qui più completa e matura manifestazione. Ottimamente sostenuto dalla splendida coppia ritmica formata dai giovani ma già noti Antonio Borghini, contrabbasso, Cristiano Calcagnile, batteria (quest’ultimo, oltre che accompagnare la cantante Cristina Donà ed il pianista Stefano Bollani, guida un’interessante formazione che ha inciso nel 2004 per la nostra etichetta il riuscito «Chant Trio»), Domenico Caliri ha fatto di questo gruppo una sorta di strumento con cui esprimere compiutamente il proprio pensiero di compositore ed improvvisatore. Il mirabile affiatamento del trio è frutto di una lunga frequentazione musicale, e si sente! Il Cal Trio aveva già pubblicato nel 2002 «Casa 3» (Bassesferec), e questo è quindi il suo secondo album, dove ben dieci degli undici brani sono firmati dal leader. L’unico standard – se così si può chiamare – presente è la deliziosa Art deco di Don Cherry, ma anche qui il trio, a tratti sospeso fra lo Scofield più sperimentale delle jam–band ed il Frisell più sognatore ed onirico, fa sentire tutta la sua forte personalità, plasmando il brano con il suo inconfondibile stile. La grintosa partenza di Ubi maior, permeata di un rock cupo ed acido, apparentemente “fuori tema”, è l’ideale premessa ad un disco che non può non stupire per la varietà delle situazioni offerte, per la libertà “controllata” con cui sa dar voce alla brillante verve compositiva di Caliri.
ELENA CAMERIN
«Grazie dei fiori?»
Caligola 2063
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Gli omaggi, sempre più numerosi negli ultimi tempi, che il jazz ha riservato alla musica leggera italiana, hanno sin qui toccato soprattutto il repertorio degli anni ’60, oppure singoli autori come Lucio Battisti, Gino Paoli e Luigi Tenco. Onore e merito quindi alla brava vocalist veneta Elena Camerin, perché è riuscita a far rivivere in questo disco – il suo primo da leader – alcune splendide canzoni di soltanto qualche anno più vecchie, ma spesso ingiustamente dimenticate. Non solo il Modugno di Vecchio frack, Resta cummè e Nel blu dipinto di blu (una versione davvero originale questa proposta dalla Camerin), ma anche brani come Io sono il vento, Guarda che luna, Grazie dei fiori, L’edera o la suggestiva Arrivederci di Umberto Bindi, trovano nelle ardite rivisitazioni ritmico–armoniche del quintetto, completato da Nicola Fazzini, Alfonso Santimone, Danilo Gallo e U.T.Gandhi, una freschezza ed un’attualità a prima vista impensabili. L’ossessivo, ipnotico incedere del pianoforte di Santimone soprattutto, fra i più interessanti jazzisti emersi nello scorso decennio dall’area ferrarese, il sax appassionato e furente di Nicola Fazzini – solista di punta della Thelonious Monk Big Band, oltre che co–leader con Dario Volpi del quartetto Palo Alto – costituiscono un ideale sottofondo, ma forse sarebbe meglio dire controcanto, alla vocalità potente e sensuale della Camerin, che sa essere delicata ma quando serve anche impetuosa. Non manca un omaggio al più tradizionale repertorio napoletano, con una dolcissima eppur struggente versione di Anema e core. Dieci anni di seri e profondi studi jazzistici, ma anche un valido e lungo apprendistato trascorso nel “Venice Gospel Ensemble”, coro diretto da Luca Pitteri, forniscono oggi ad Elena Camerin le basi indispensabili (e necessarie) per potersi affermare – in tempi ci auguriamo sufficientemente rapidi – anche come leader. Non possiamo non ricordare che la vocalist veneta è anche presente in due tracce del disco inciso per la nostra etichetta nel 2004 dal quartetto del pianista Tommaso Genovesi, «Night funk», comprendente una coppia ritmica solida ed affiatata che, forse non casualmente, ritroviamo anche in questo «Grazie dei fiori?». Parliamo nella fattispecie del contrabbassista Danilo Gallo, ormai veneziano d’adozione, e del batterista friulano U.T.Gandhi, la cui rilevante personalità, che unisce fantasia ad estrema sensibilità ritmica, è stata posta al servizio di un gran numero di jazzisti, primo fra tutti il trombettista Enrico Rava a metà degli anni ’90.
RACHEL GOULD
«No more fire»
Caligola 2062
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Nell’ossessiva ricerca di nuove regine del canto jazz, meglio se giovani e carine, l’industria discografica non s’accorge spesso dell’esistenza di cantanti mature e dotate, magari poco note, ma che meriterebbero un’attenzione ben superiore a quella che normalmente viene loro riservata. E’ questo il caso di Rachel Gould, nata nel 1953 a Camden, New Jersey, da anni fra le più lucide e sensibili voci del jazz moderno, nota soprattutto per le sue collaborazioni con Chet Baker e Sal Nistico.
Musicista di formazione classica – studia canto e violoncello a Boston – la Gould comincia a cantare professionalmente a metà degli anni ‘70, prima negli Stati Uniti, poi in Europa, dove decide di fermarsi, stabilendosi prima in Germania e quindi, dopo la morte di Nistico, dal 1992 in Olanda, dove vive ancor oggi. Il primo disco da leader, dopo una lunga gavetta effettuata a fianco di musicisti come Philip Catherine, Benny Bailey e Horace Parlan, viene registrato a metà degli anni ‘80 («The Dancer»). Più importante è il successivo «A Sip Of Your Touch», del 1989, con Riccardo del Frà, Enrico Pieranunzi, Art Farmer e Dave Liebman, cui seguono «Live in Montreux» (1991) e «More Of Me» (1993).
L’idea di registrare con una formazione tutta italiana matura durante i molti tour e seminari che Rachel tiene periodicamente nel nostro paese. Fra le diverse sezioni ritmiche che frequenta, questa guidata dal pianista Marcello Tonolo sembra rispondere più di ogni altra alle sue esigenze espressive. Al trio – in cui spicca fra l’altro il sensibile “drumming” di Mauro Beggio – non basterà altro che aggiungere la tromba di Marco Tamburini, ed il gioco è presto fatto. Il quintetto incide un disco, «Dancin’ on a dime» (Caligola 2029), che la nostra etichetta pubblica nel 1999, ed a distanza di tre anni registra ancora (con l’unica variante costituita dall’ingresso del contrabbassista Paolo Ghetti al posto di Franco Testa) ma l’album, molto atteso, sarà pubblicato solo nel 2005 con il titolo di «No more fire». Quattro standard (fra cui un’avvincente Cold duck time, una delicata It never entered my e l’ellingtoniana Perdido, affrontata in duo con la batteria) e sei brani originali (fra cui la ripresa del bellissimo Empty room, composto insieme a Nistico) ci rivelano, se mai ce ne fosse bisogno, una vocalist straordinaria, degna erede della migliore tradizione del canto jazz (Shirley Horn e Carmen McRae su tutte), ma soprattutto musicista completa, capace di controllare in ogni momento la materia musicale affrontata.
CICCON’DELA
«Risvegli»
Caligola 2061
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(piano, tastiere), Gabriele Pesaresi (contrabbasso), Morgan Fascioli (batteria).
Ospiti: Marco Tamburini (tromba), Mauro De Federicis (chitarra classica), Roberto Di Virgilio (chitarra elettrica), Matar M’Baye (voce, percussioni), Pino Petraccia (percussioni).
A due anni dall’album del debutto, auto–prodotto e semplicemente intitolato «Ciccon’dela» – ma con l’aggiunta di “(uno)”, quasi per ribadire che si trattava del primo – «Risvegli» dovrebbe essere per il giovane ma già collaudato gruppo abruzzese il disco della definitiva consacrazione. Nato nel dicembre 2001 dall’incontro di Carmine Ianieri, Giacomo Salario e Morgan Fascioli, il progetto Ciccon’dela ha quindi trovato nel più esperto Fabrizio Mandolini – assai attivo in Danimarca, dov’è più noto che nel nostro paese – non solo un valido sassofonista e compositore aggiunto, ma soprattutto un produttore prezioso e motivato, che ha avuto il grande merito di riuscire a trasformare quelle belle idee in realtà, cosa in genere più facile a dirsi che non a farsi. Con questo secondo album ma soprattutto dopo tre anni di paziente e fruttuoso lavoro concertistico Ciccon’dela – nome invero curioso, quello scelto dai suoi tre fondatori – è oggi un quintetto maturo e collaudato, che non esita a servirsi, seppur occasionalmente, dell’apporto di ospiti più meno famosi. E’ il caso per esempio del trombettista Marco Tamburini, presente nell’unica traccia “live” del disco, A night in Paris, di Giacomo Salario, che è poi l’unico brano ripreso da «Ciccon’dela (uno)» ed anche il solo legato ad un’impostazione boppistica di stampo tradizionale. Che le ispirazioni del gruppo siano davvero varie e diversificate, lo dimostrano gli echi shorteriani – fortemente legati però al periodo Weather Report – di The dragger e Selenium, gli accenti quasi methenyani della prima versione di Risvegli (eseguita in duo da chitarra classica e sax tenore) e della suggestiva Timeless, firmata da Morgan Fascioli, batterista dallo spiccato talento compositivo, come confermano sia nel suadente e lirico tema di Smilla is sailing – in cui il sax di Ianieri paga il suo tributo a Brecker – sia nella lieve cavalcata etnica di Wainthee (scritta con Mandolini), brano arricchito dalla presenza di ben due percussioni e dalla suggestiva voce dell’africano Matar M’Baye. Mandolini – che qui suona soltanto il sax soprano – ha regalato al gruppo l’ipnotico tema di La bicicletta,che potrebbe essere una bella colonna sonora, e l’ammiccante soul–bop di Jive on, il cui riff ostinato sarebbe sicuramente piaciuto molto a Cannonball Adderley.
PAOLO BOTTI
«Viola Trio»
Caligola 2060
notizie aggiuntive
Anthony Moreno (batteria).
Dopo aver pubblicato due album per la nostra etichetta con un originale quintetto completato da Marina Ciccarelli, Alessandro Bosetti, Tito Mangialajo e Filippo Monico – «Leggende Metropolitane» (Caligola 2035) e «Moto contrario» (Caligola 2040) – Paolo Botti, milanese, classe 1969, scopre maggiormente le sue carte, ponendo ora la sua viola (strumento davvero atipico, questo, nel mondo del jazz) alla guida di un trio essenziale quanto stimolante, in cui viene affiancato da uno dei nostri migliori giovani contrabbassisti, Salvatore Maiore, e dal magnifico batterista americano Anthony Moreno.
“C’era veramente bisogno di un disco come questo?… La viola può dare qualcosa al jazz?… Il jazz può dare qualcosa alla viola?…”. Ecco solo alcune delle molte domande che Botti si fa nelle note di copertina dell’album, ma la migliore – se non l’unica – risposta possibile può venire solo dalla musica. Non deve spaventare l’approccio a questo «Viola Trio». E’ solo richiesta un po’ d’attenzione, trattandosi di jazz molto libero, e per questo rischioso, che corre sul filo dell’improvvisazione, tenendo però sempre in grande considerazione il dialogo fra musicisti (quello che gli americani chiamano “interplay”), nessuno dei quali può esser considerato soltanto mero accompagnatore.
Botti è riuscito a liberarsi dal peso degli anni di conservatorio, portando il suo strumento su terreni il più possibile lontani da Bach e Paganini. Ha approfondito la propria passione per il jazz studiando con Bruno Tommaso e Franco D’Andrea, ed ha quindi suonato in diverse formazioni, fra cui l’Hereo Ensemble di Giorgio Occhipinti e l’orchestra Eleven di Franco D’Andrea. Al tempo stesso, pur continuando a collaborare con protagonisti dell’avanguardia italiana ed europea, da Evan Parker a Giancarlo Schiaffini, da Barre Philips a Carlo Actis Dato, il violista milanese s’è sempre più dedicato all’attività di leader, prima con il quintetto e quindi proprio con il trio.
I dieci brani presenti in «Viola Trio» (ne sono elencati undici in verità, ma uno, Afternoon in Trento, vi compare in due differenti versioni) portano tutti la firma del leader, che si conferma quindi non soltanto eccellente solista, ma un “organizzatore di suoni” originale e maturo, capace, anche quando affronta gli impervi terreni dell’avanguardia, di non perdere mai il controllo della materia musicale. La sfida insomma può, a nostro parere, considerarsi ampiamente vinta.