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TREPERQU@TTRO

«Ironic»

Caligola 2089

notizie aggiuntive

Beppe Aliprandi (sax alto, tenore, flauto), Luca Segala (sax tenore, soprano e baritono), Tito Mangialajo Rantzer (contrabbasso), Massimo Pintori (batteria)

E’ il secondo disco di Beppe Aliprandi per la nostra etichetta, due anni dopo «Blue totem» (Caligola 2070); ma qui la responsabilità viene divisa con un altro più giovane sassofonista, anche lui attivo nell’area milanese, Luca Segala. Oltre che la guida del quartetto (una sorta di doppio trio in definitiva, come il bizzarro nome scelto, Treperqu@ttro, lascerebbe intendere), i due jazzisti si dividono anche le fatiche della composizione, avendo firmando Aliprandi quattro, e Segala tre dei nove brani del disco.
Segala, diplomato in Francia, proviene dalla musica classica, ma è musicista ricco di swing e feeling jazzistico. Doti queste presenti anche in Aliprandi che, con l’appartenenza come co–leader a questo gruppo, aggiunge un altra perla alla già ricca collana delle sue esperienze. In questo contesto, i quattro operano in una dimensione che ricorda i più amati gruppi “pianoless” della storia del jazz, dai quartetti Mulligan–Baker o Mulligan–Brookmayer ai quartetti Coleman–Cherry o Coleman–Redman, quest’ultimo assai simile anche per la strumentazione prescelta. Ogni sospetto d’imitazione viene però a cadere allorché si dia un’ occhiata all’inconsueto repertorio di Treperqu@ttro, che rende questo gruppo ancora più difficile da etichettare, perché estremamente originale. Alcuni dei brani possono tutt’al più far riferimento all’avanguardia jazzistica chicagoana degli anni ’60 e ‘70, dove la libertà delle strutture ed un linguaggio espressivo di grande attualità si sposano ad atmosfere saldamente radicate nella tradizione jazzistica. Non è un caso che il brano scelto per chiudere l’album sia un’interpretazione ironica e gustosa di Strawberry mango, cavallo di battaglia dell’Art Ensemble of Chicago. Molte delle composizioni hanno tuttavia come punto di partenza la musica colta: sono infatti frequenti i riferimenti al pre–barocco (addirittura palesi nella rilettura di La suave melodia, di Andrea Falconieri), al barocco od a forme più moderne di musica accademica: il passaggio da queste pagine tradizionali al linguaggio jazzistico delle parti improvvisate è non solo quasi impercettibile ma, anzi, apportatore di un’unità espressiva che ben dimostra come la formula “tema con variazioni”, di gran moda nei secoli passati, sia ancor oggi più che mai attuale.
Una nota di merito infine spetta all’affiatata, compatta e fantasiosa coppia ritmica, senza il cui incalzante pulsare non succederebbe nulla. Sia Mangialajo Rantzer, contrabbasso, che Pintori, batteria, non solo svolgono nel migliore dei modi i compiti loro assegnati, ma contribuiscono in modo determinante alla riuscita finale del progetto.

TOMMASO GENOVESI

«Never knows»

Caligola 2088

notizie aggiuntive

Nevio Zaninotto (sax tenore e soprano), Tommaso Genovesi (pianoforte,
Fender Rhodes), Danilo Gallo (contrabbasso), U.T.Gandhi (batteria)
Ospiti: Elena Camerin (voce), Federico Casagrande (chitarre)

Registrato quattro anni dopo «Night funk» (Caligola 2049) – che costituiva la prima prova da leader del pianista siciliano, ma ormai veneto d’adozione, Tommaso Genovesi – questo riuscito «Never knows» segna un importante passo in avanti nella sua crescita artistica e rappresenta allo stesso tempo una quasi logica conseguenza di quel lavoro. Rimane immutata la composizione del quartetto – e la cosa costituisce già di per sé una felice eccezione nel tumultuoso e variegato panorama del jazz contemporaneo – rinforzato anche in questo caso dalla presenza di ospiti più funzionali che prestigiosi, capaci di aggiungere colori e varietà alla musica del leader, senza per questo snaturarne significati e caratteristiche. Danza, disinvolta e sinuosa, la chitarra del giovane Federico Casagrande nell’ipnotica Battiti, ed altrettanto efficace è il suo intervento in Crash, cui la presenza del piano Fender – una novità rispetto al disco precedente – conferisce sapori marcatamente davisiani. E’ una sorta di post–bop elettrico il suo, capace di diventare quasi psichedelico nella suggestiva e davvero avvincente versione di Tomorrow never knows, fra i più originali ancorché meno noti frutti del genio compositivo di Lennon–McCartney. Fondamentale, in quest’intensa e magica rilettura beatlesiana, è l’apporto, oltre che della chitarra elettrica, dell’inventiva e duttile voce di Elena Camerin, ch’era presente anche in due brani di «Night funk». E’ in Passi lesti però che la cantante veneta, grazie ad un innovativo quanto intelligente uso dell’elettronica, dispiega tutta la sua stringente energia creativa. Ma anche le altre composizioni originali, dallo swingante hard–bop di Vertigo al piacevole “divertissement” di Spring rag, dalla dolce e sospesa melodia di Clouds, all’incalzante ma sempre controllato incedere ritmico di Frammenti, confermano la fertile inventiva di Genovesi, che aggiunge ottime qualità di compositore a quelle, già note e non minori, di pianista, mai sovrabbondante, sempre intenso e puntuale. Una menzione speciale spetta infine ai tre eccellenti strumentisti che completano il quartetto. Se sull’ormai solida ed affiatatissima coppia ritmica costituita da Danilo Gallo e U.T.Gandhi non c’è molto da aggiungere, vanno senza dubbio sottolineati i notevoli passi in avanti compiuti dal sassofonista friulano Nevio Zaninotto, sanguigno e profondo al tenore – che resta il suo principale strumento – più sottilmente lirico al soprano.

GIULIANO PERIN

«Passion & Reason»

Caligola 2087

notizie aggiuntive

Maurizio Scomparin (tromba), Neil Leonard (sax alto, soprano), Giuliano Perin (vibrafono), Marcello Tonolo (piano), Luciano Milanese (contrabbasso), Massimo Chiarella (batteria)
Ospite: Dave Samuels (marimba)

Anche questo terzo disco di Giuliano Perin in qualità di leader viene pubblicato, come i precedenti, dalla nostra etichetta, Caligola Records. «Passion & Reason» prosegue in qualche modo il percorso iniziato con «Flexibility» (Caligola 2068), e la formazione di base del vibrafonista padovano sembra essersi ormai assestata, comprendendo, oltre a lui, Maurizio Scomparin, tromba, Marcello Tonolo, pianoforte, Luciano Milanese, contrabbasso, e Massimo Chiarella, batteria. In quest’incisione si aggiungono però al quintetto i sassofoni di Neil Leonard, ed in due brani anche la marimba di un ospite del calibro di Dave Samuels. Riportiamo, di seguito, un estratto dalle note di copertina scritte per l’occasione dal critico Franco Fayenz, che ringraziamo sentitamente.
“…E’ il secondo disco che sono chiamato a commentare dopo «Into the Vibes» (grazie). Noto subito alcune cose che mi fanno piacere: la conferma della sezione ritmica esemplare del secondo disco, la presenza del sassofonista Neil Leonard che è anche insegnante alla Berklee di Boston e soprattutto – qui scivolo sul piano personale – quella di Dave Samuels, che incontrai giovanissimo (lui, non io) negli anni Settanta come virtuoso di vibrafono e marimba nel gruppo di Gerry Mulligan al quale diede, come qui, un contributo eccellente di espressività e di eleganza. Noto pure il forte attacco iniziale, arrangiato per i fiati, in medias res, del primo brano della serie, Renaissance, firmato da Perin, che cattura l’ascoltatore e lo consiglia implicitamente di non perdere più la concentrazione, perché ne vale la pena. Più oltre, specie nel quinto e nell’ottavo brano, apprezzo la tromba di Maurizio Scomparin che lo stesso Perin definisce, parlandone con me, un solista sottovalutato. Condivido. La musica del disco è tutta bella, al punto che quasi dispiace indicare alcune preferenze, ma si tratta di un obbligo al quale non ci si può sottrarre… Stupendo è il dialogo fra Samuels e Perin in Letter to Dave, e magnifico è l’apporto di Leonard in Passion & Reason, brano che dà il titolo all’album, così come In tangenziale, dove s’impone anche Scomparin. L’album appartiene, dalla prima all’ultima nota, ad una sorta di amabile ed autobiografico hard–bop, rivisitato alla luce delle esperienze successive, sebbene posto accanto ai prediletti Art Blakey e Horace Silver, ma non c’è mai il benché minimo sentore di imitazione…”.

9 O’CLOCK & AIRTO MOREIRA

«9 o’clock»

Caligola 2086

notizie aggiuntive

Gigi Sella (sax soprano), Francesco Signorini (tastiere), Stefano Olivato
(basso elettrico), Paolo Prizzon (batteria), Leonardo Di Angilla (percussioni)
Ospite: Airto Moreira (percussioni)

Nato dalla comune passione per i Weather Report – formazione che ha segnato profondamente la storia del jazz contemporaneo – il gruppo 9 O’Clock è formato da cinque noti musicisti dell’area veneta, ciascuno con diverse esperienze professionali alle spalle. Non c’è soltanto lo studio del repertorio della leggendaria band americana alla base del loro percorso musicale, ma più in generale anche quello del linguaggio della fusion, genere spesso a torto snobbato dai jazzofili. Quella che poteva rimanere soltanto una delle molte “tribute band” in circolazione, ha però trovato durante sei lunghi anni di attività nuovi stimoli e più ambiziosi obiettivi, provando ad affiancare con il tempo ai brani di Zawinul e Shorter (ma anche di Pastorius) sempre più numerose composizioni originali. La maturazione artistica e l’invidiabile affiatamento del quintetto, così come il fondamentale incontro con Airto Moreira – che aveva addirittura suonato nel primo disco dei Weather – “maestro” per nulla inavvicinabile anzi, inaspettatamente disponibile, hanno fatto il resto. E’ sembrato quindi naturale fissare su nastro quest’originale percorso artistico, cui ha aggiunto entusiasmo l’insperata quanto preziosa partecipazione di Airto Moreira, che già s’era affiancato alla band in alcuni concerti. La musica che si ascolta in questo loro primo album, volutamente registrato in presa diretta – quasi si trattasse di un’esibizione “live” – è lo specchio fedele di quello che gli appassionati hanno già potuto apprezzare più volte dal vivo. E’ stato proprio il costante e caloroso consenso del pubblico a convincere i cinque musicisti veneti ch’era giunto il momento d’incidere un disco. Ciò consentirà a molti altri jazzofili, non solo italiani, di gustare una musica ancor oggi fresca e stimolante, per niente datata. Degli otto brani scelti, uno è un avvincente dialogo percussivo fra Moreira e Di Angilla, ed un altro è lo “storico” Black Market di Joe Zawinul. Gli altri sono invece tutte composizioni originali. Ritroviamo così lo swingante One Step di Sella – già comparso in «Huahine» (Caligola 2074) – un ipnotico Flex di Signorini ricco d’influenze shorteriane, e ben quattro composizioni di Olivato, bassista del gruppo che, se in Sette passi e Luna piena rivela tutta la sua ammirazione per Zawinul, condisce i più cantabili Waiting for dinner e Hamburger di efficaci riff e fraseggi, mostrando di aver sì ben assimilato – come potrebbe essere altrimenti! – la lezione di Jaco Pastorius, ma soprattutto grande padronanza dello strumento, buon gusto e spiccata personalità.

MARIO BELLAVISTA

«4 friends»

Caligola 2085

notizie aggiuntive

Giampaolo Casati (tromba), Mario Bellavista (pianoforte), Marc Abrams (contrabbasso), Mimmo Cafiero (batteria)

Non lo si direbbe proprio un album di debutto, questo di Mario Bellavista. Ed infatti il pianista palermitano, classe 1968, è tutt’altro che un esordiente, e solo i gravosi impegni di un’avviata professione, quella di avvocato penalista, ne avevano finora ritardato l’approdo discografico. Bellavista inizia infatti a suonare il piano all’età di sette anni e frequenta il Conservatorio. Scopre il jazz nel 1987 e partecipa ai seminari di Siena nel 1994 e di Perugia nel 2000. Suona in diversi contesti, ma con l’intensificarsi degli impegni professionali è costretto a diradare i concerti, preferendo esibirsi soprattutto all’interno di festival. Il quartetto protagonista di quest’incisione è da qualche anno la sua formazione stabile prediletta, anche se quando può affronta senza timore il piano–solo. Lungo le dieci tracce che lo compongono, «4 Friends» è opera tanto matura sul versante tecnico ed espressivo quanto coraggiosa nell’affidarsi a composizioni originali che, nelle note di copertina, sono minuziosamente commentate dal sassofonista Paul H.Jeffrey. Del pianista emergono il nitore, la fluidità di fraseggio e la pienezza di tocco, qualità esaltate dalla splendida sonorità di un prezioso Fazioli gran coda e fedelmente restituite dalla registrazione effettuata presso l’ormai famoso studio di Stefano Amerio. Del gruppo, completato dal contrabbassista newyorkese, ma ormai veneziano d’adozione, Marc Abrams, dal trombettista genovese Giampaolo Casati e dal batterista palermitano Mimmo Cafiero, colpiscono il raffinato “interplay” e l’eleganza del gioco dinamico degli incastri. Della vena compositiva di Bellavista, assai mobile e fresca, si apprezza la varietà tematica e la squisita cantabilità di ciascun brano, sia di quelli segnati da un incedere acceso ed incalzante (l’ipnotico valzer di Partrap, il dinamico Mirricordi, che parte a ritmo di samba, passando poi in 4/4, l’orecchiabile cadenza melodica, ad andamento circolare, di Gea not jazz, sia di quelli che si distendono in ritmi più lenti e morbidi (il melanconico Butter and mouse, tema in minore, la dolce bossanova di You tone, il breve ma intenso piano–solo di Peter fly. Una nota di merito va infine al costante senso della misura, evidente segno di maturità, di cui dà prova Bellavista come interprete: gli assoli sono incisivi ma non debordanti, e non prevaricano mai i compagni; il fraseggio è molto fantasioso ma non concede nulla alla prolissità; le linee melodiche hanno un gusto romantico ma non certo dolciastro. «4 Friends» si conferma insomma opera prima decisamente matura e riuscita, e non dovrebbe mancare di stupire piacevolmente gli appassionati.

MICHELE CALGARO

«Round about Monk»

Caligola 2084

notizie aggiuntive

Michele Calgaro (chitarre), Lorenzo Calgaro e Lorenzo Conte (contrabbasso), Mauro Beggio ed Eliot Zigmund (batteria), Robert Bonisolo ed Ettore Martin (sax tenore), Kyle Gregory (tormba), Beppe Calamosca (trombone), Dario Duso (tuba)

Chitarrista di formazione autodidatta, si specializza negli anni ‘80 nella tecnica del fingerpicking con Duck Baker, Stefan Grossman e John Renbourn. Approfondisce in seguito lo studio dell’improvvisazione e del linguaggio jazzistico grazie alla frequentazione di stages tenuti da Mick Goodrick, Jim Hall, Lee Konitz e Dave Holland. Dopo essersi messo in luce nei corsi estivi di Siena Jazz ’90, dal 1991 è direttore della scuola di musica Thelonious, di Vicenza. Conosce il sassofonista canadese Robert Bonisolo, e con lui guida un quartetto completato da Lorenzo Calgaro, contrabbasso, suo fratello, e Gianni Bertoncini, batteria, che registra nel 1995 per la Flex Records «The Edge», con ospite Paolo Fresu. Suona quindi nei gruppi di Claudio Fasoli (quartetto e trio) e nella Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo Brazzale, con cui registra tre dischi. Collabora inoltre con Kenny Wheeler, Manfred Schoof, Erik Truffaz e Claudio Roditi, ma anche con alcuni dei migliori jazzisti italiani, come Mauro Negri, Paolo Birro, Pietro Tonolo. Ha suonato nel disco e nel tour di «Del Magico Mondo», un ambizioso lavoro del cantautore Federico Zecchin, cui hanno partecipato Rossana Casale e Giorgio Albertazzi. Oltre a guidare proprie formazioni, Calgaro suona spesso con la cantante chicagoana Cheryl Porter e nel Monkgomery Quartet, assieme all’amico chitarrista Sandro Gibellini.
«Round About Monk» è quindi il primo disco firmato da Michele Calgaro come unico leader (in «The Edge» le scelte musicali erano infatti condivise con Bonisolo). L’originalità del lavoro, in cui ci vengono offerte delle personali rivisitazioni del repertorio monkiano (più un brano originale, Lazy Cats), sta nella varietà delle formazioni assemblate dal chitarrista vicentino, che vanno dal trio all’ottetto, senza tralasciare una parentesi per sola chitarra (Crepuscule with Nellie). Suggestive sono soprattutto le esecuzioni dell’ottetto, da Bemsha Swing a Monk’s Mood, grazie ai preziosi arrangiamenti di Calgaro, capaci di bilanciare sapientemente gli insieme orchestrali dei fiati ed i brillanti assoli degli musicisti coinvolti nel progetto, da Kyle Gregory a Robert Bonisolo, da Ettore Martin a Beppe Calamosca. Due brani (Let’s Cool One ed il già citato Lazy Cats) sono eseguiti in trio con Lorenzo Conte ed Eliot Zigmund, vero e proprio maestro della batteria, per anni al fianco dell’indimenticato pianista Bill Evans.

GLAUCO VENIER & YURI GOLOUBEV

«Hommage à Duke»

Caligola 2083

notizie aggiuntive

Glauco Venier (pianoforte), Yuri Goloubev (contrabbasso)
Ospite: Asaf Sirkis (batteria)

Affrontare il repertorio di Duke Ellington (e Billy Strayhorn) nel contesto del duo è una decisione che può far tremare i polsi, almeno se si va con la memoria agli storici duetti del ‘39/40 tra il Duca e Jimmy Blanton, ma anche a quelli, meno famosi, realizzati da Ellington con Ray Brown nei primi anni ’70. Il pianista friulano Glauco Venier ed il contrabbassista russo Yuri Golubev, da qualche anno residente in Italia, fanno questa scelta con rispetto e consapevolezza del repertorio scelto, ma senza nessun freno inibitore, pescando nello sterminato catalogo ellingtoniano alcune delle opere più celebri, ma non trascurando composizioni meno battute, come Azure, African Flower e, soprattutto, un capolavoro degli anni ’20 come Black And Tan Fantasy.
Quando il gruppo si amplia a trio con la presenza del batterista israeliano Asaf Sirkis, si assiste ad una lucida conversazione a tre voci, in cui il ritmo si articola anche attraverso il sapiente uso timbrico della batteria. Ascoltando questa musica, non bisogna cercare un legame diretto con le sue interpretazioni storiche, sia quelle dei loro autori sia quelle dei grandi musicisti che li hanno suonati, bensì andare in profondità nella ricerca del loro significato profondo, delle loro caratteristiche musicali per comprendere appieno la sottigliezza della musica che il duo ci propone.
Glauco Venier, pianista ormai maturo, fra i più originali ed interessanti emersi nella scena jazzistica italiana dell’ultimo decennio, si è avvicinato al jazz dopo essersi diplomato in organo al Conservatorio di Udine nel 1985. Il suo primo album è il piano–solo «Finlandia», del 1990, ma è con un trio completato da Salvatore Maiore, contrabbasso, Roberto Dani, batteria, costituito nel 1994, che trova il pieno riconoscimento del mondo del jazz, anche europeo. Dalla seconda metà degli anni ’90 si moltiplicano quindi le collaborazioni internazionali. Si trova così a fianco di Lee Konitz e Norma Winstone, Kenny Wheeler e Klaus Gesing, sassofonista austriaco attraverso cui conosce ed inizia a frequentare Yuri Goloubev, trentaquattrenne contrabbassista russo di solida formazione classica, da qualche anno ormai stabilitosi in Italia. Da Guido Manusardi a Giovanni Falzone, sempre più numerosi jazzisti italiani utilizzano la sensibilità ed il talento di Goloubev che, soprattutto in formazioni d’impronta cameristica – com’è nel nostro caso quella del duo – riesce a far emergere appieno tutta la sua superlativa classe musicale.

ALAN FARRINGTON & SANDRO GIBELLINI

«Two of us…»

Caligola 2082

notizie aggiuntive

Alan Farrington (voce), Sandro Gibellini (chitarra)
Ospiti: Jacopo Jacopetti (sax tenore), Richi Biancoli (batteria), Roby Soggetti (archi)

La profondità espressiva e la suadente nostalgia messe in campo in questo album da Alan Farrington, trovano nella sublime chitarra di Sandro Gibellini un ideale controcanto. L’essenzialità del progetto – un duo sulla carta sin troppo scarno, verrebbe da pensare – non nuoce alla sua riuscita, anzi, l’affiatamento – o quello che gli americani chiamano “interplay” – e la sensibilità dei suoi due protagonisti lo rendono a tratti magico. Farrington, inglese, classe 1951, ha attraversato, nella sua lunga e spesso tumultuosa carriera, diversi ambiti stilistici, dal rock al rhythm’n ’blues, dal jazz tradizionale alla lounge music, passando anche per Frank Sinatra. Da circa un decennio ha scelto quindi di vivere nella pace lacustre del Garda, dove ha approfondito lo studio e la conoscenza della musica afroamericana. Mirabilmente assecondata dalla sei corde di Gibellini – bresciano, classe 1957, chitarrista ormai “storico” del nostro jazz – la sua voce sa entrare direttamente nella nostra anima, risvegliando i sentimenti e gli umori più reconditi, ammaliandoci con tredici brani di rara bellezza. Insieme a pietre miliari della canzone americana degli anni ’30 e ’40 (The way you look tonight, They can’t take away from me, Anything but love, Anita), fase storica legata a compositori del calibro di George Gershwin, Jerome Kern, Jimmy McHugh e Fats Waller, Farrington e Gibellini pescano dal loro cilindro magico un trascinante boogie–woogie di Cab Calloway, Boog it, ma anche una toccante rielaborazione di una celebre pop–song di Gilbert O’Sullivan, Alone again, che in questa riuscita interpretazione acquisisce la bellezza di uno standard senza tempo. Si ascolti qui l’assolo della chitarra, mirabile esempio di fantasia melodica, raffinatezza armonica e senso dello swing, che la dicono lunga sulle qualità di Sandro Gibellini, fra i più apprezzati (dagli addetti ai lavori) ed allo stesso tempo maggiormente sottovalutati (dal grande pubblico) protagonisti del jazz italiano degli ultimi vent’anni. Il suggestivo calore della voce di Farrington e la sapiente tessitura armonica della chitarra di Gibellini impreziosiscono anche due deliziosi brani originali, Jazz dream, tributo ai maestri della storia del jazz., e la swingante My Matilda, omaggio del cantante anglosassone al genere “vocalese” ma anche alla piccola figlioletta che porta proprio quel nome. Da ricordare infine che tre dei tredici brani di «Two of us…» sono ravvivati dalla presenza di tre amici–ospiti: il tenore di Jacopo Jacopetti è presente in Anita, la batteria, anzi il rullante, di Richi Biancoli in Boog it, mentre gli archi sono ottimamente arrangiati da Roby Soggetti in una struggente Autumn in New York.

MARCELLO TONOLO & Thelonious Monk Big Band

«Night over»

Caligola 2081

notizie aggiuntive

Maurizio Scomparin, Gastone Bortoloso, Ilic Fenzi, Stefano Mazzucco (tromba);
Beppe Calamosca, Toni Costantini, Umberto De Nigris, Matteo Morassut (trombone);
Nicola Fazzini, Piergiorgio Caverzan, Michele Polga, Alberto Vianello, Mauro Bordignon (sassofoni);
Giuliano Perin (vibrafono); Stefano Bassato (chitarra); Matteo Alfonso (piano);
Marc Abrams (contrabbasso); Davide Ragazzoni (batteria); Davide Michieletto (percussioni).
Ospiti: Marco Tamburini, David Boato (tromba), Pietro Tonolo (sax tenore)
Arrangiamenti e direzione di Marcello Tonolo

La Thelonious Monk Big Band è nata nel 1997 all’interno del laboratorio di arrangiamento dell’omonima Scuola di Musica, condotto dal pianista Marcello Tonolo e dal sassofonista Maurizio Caldura. Dopo l’improvvisa e dolorosa morte di Caldura (1959–1998), la conduzione dell’appena costituita big–band è stata presa da Tonolo, che nel 2000 ha dedicato all’amico prematuramente scomparso il primo disco dell’orchestra, «Goofy’s dance» (Caligola 2032). A dieci anni dalla sua fondazione la Thelonious Monk non é più la big–band dei seminari, in cui gli allievi si mescolavano agli insegnanti, ma una formazione ormai professionale, in cui militano i maestri della scuola ed alcuni dei migliori solisti veneti in circolazione. L’orchestra ha lavorato nel 2002 con Carla Bley e Steve Swallow, ed ha poi partecipato, con una lunga medley che mescola Warm Valley di Ellington a Bright Mississippi di Monk (medley presente anche in questo «Night Over»), a «Lester» (Caligola 2054), disco “live” del 2004, che comprendeva varie formazioni venete. Questo nuovo album – che esce a dieci anni dalla nascita ed a sei dalla precedente incisione in studio della big–band – rappresenta un altro passo importante del suo percorso artistico, assegnando all’orchestra veneta un posto di primo piano nel panorama jazzistico del nostro paese. Viene messo in luce finalmente il poliedrico talento di Marcello Tonolo, compositore ed arrangiatore di razza, ma che non ha ancora ottenuto i meritati riconoscimenti. Sono suoi infatti, esclusa la medley naturalmente, gli altri quattro brani del disco, fra cui quello che gli dà il titolo, già apparso tre anni or sono in «Two days in New York» (Caligola 2048), di Marco Tamburini. Gli assoli sono una passerella per i migliori membri dell’orchestra – fra cui val la pena di ricordare almeno i sassofonisti Michele Polga e Nicola Fazzini, il trombonista Beppe Calamosca, il trombettista Ilic Fenzi ed il bassista Marc Abrams – ma anche per i tre illustri ospiti dell’incisione, ovvero Marco Tamburini, David Boato e Pietro Tonolo, autori di soli davvero pregevoli, gli ultimi due presenti addirittura insieme nella suadente ballad d’apertura, Dream.

MASSIMO DONA’

«Cose dell’altro mondo (Bi sol mi fa re)»

Caligola 2080

notizie aggiuntive

Massimo Donà (tromba, voce), Francesco Bearzatti (sax tenore, clarino), Michele Polga (sax tenore), Giorgio Mantovan (chitarre), Nicola Sorato (basso elettrico), Davide Ragazzoni (batteria)

Quarto disco da leader del trombettista–filosofo Massimo Donà, a due anni da «Spritz», pubblicato sempre da Caligola, «Cose dell’altro mondo», pur tenendo fede ad una coerente ed esemplare continuità stilistica con i precedenti lavori, lancia qualche segnale di novità. Non è un caso poi che l’album sia uscito a ridosso del quarto tascabile scritto per Bompiani, «Filosofia della musica», di cui s’è già molto parlato ed a cui sembra arridere lo stesso successo toccato tre anni fa a «Filosofia del vino». Il brano che dà il titolo all’ultimo disco, Cose dell’altro mondo, sottotitolato Suite filosofica, ci fa ascoltare, in mezzo a molti interessanti spunti melodici, le voci di famosi pensatori (in qualche caso maestri di Donà) come Emanuele Severino e Massimo Cacciari, Giulio Giorello e Carlo Sini, Enrico Ghezzi e Vincenzo Vitiello. Proprio all’interno di questa lunga e cangiante suite musicale, Donà trova alcune delle sue migliori invenzioni tematiche, riuscendo a ricavare il massimo anche dai suoi partner, dalla chitarra profondamente blues di un collaudato session–man come Giorgio Mantovan al sax tenore sempre più profondo e “libero” di Michele Polga od all’imprevedibile e sinuoso clarinetto di Francesco Bearzatti.
Già parlando della suite abbiamo anticipato alcune importanti novità presenti nel disco: la rinuncia, dopo tre album, alle tastiere di Lele Rodighiero in favore della chitarra di Mantovan appunto e, finalmente, la presenza in tre brani dell’eccellente sassofono di Polga, peraltro già da tempo egregio sostituto di Bearzatti nei concerti. Si ascolti, per convincersi della sua raggiunta maturità, il sapiente funky di Alghera la pantera o di Maratea’s bells, quest’ultimo introdotto dal “vero” suono delle campane di Maratea (registrate sul luogo dal leader). Sono riservate invece a Bearzatti il facile ma efficace tema–canzone che apre l’album, da cui è stato tratto anche il sottotitolo (bi SOL MI FA RE), la swingante Meno argenteria, più pollo cotto e la “tumultuosa” – quasi una veloce corsa ad ostacoli – Lunare. Piacciono, in generale, al di là dell’apparente leggerezza dei temi, la maggiore libertà acquisita da una musica decisamente più aperta e trasversale che nel passato, soprattutto nelle sue parti improvvisate. La personale e matura tromba di Donà sa cavarsela bene anche senza i sassofoni, risolvendo brillantemente da sola, in quartetto, l’improvvisazione sulla cantabile melodia di Hangarian Mystery, tema che pensiamo sarebbe piaciuto anche a Tadd Dameron..

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